martedì 21 febbraio 2012

A tre deserti dall’ombra dell’ultimo sorriso meccanico

«Datemi un cerino vero, con fiamma viva / e fatemi giocare tra i castelli di carta, i sogni, i libri / il freddo non vi morderà la punta delle dita / non vi indicherà tra le nebbie il sentiero selvaggio del caos / né ghiaccerà il futuro davanti ai nasi schiacciati alla finestra»

Elio Coriano, H 4965, in A tre deserti dall’ombra dell’ultimo sorriso meccanico

da Il Paese Nuovo, 2012-02-10

La poetica di Elio Coriano ha le fattezze di un tempo indeterminato perché è nelle parole dell’inconscio che, l’autore, ha forgiato trame e vissuti quotidiani, una dialettica poetica che scolpito il tempo ne ha fatto dimensione diversa, immutata, coordinata dalle parole che riallacciano l’uomo a dimensioni che oggi sembrano dimenticate. È un percorso poetico che ufficialmente inizia nel 1995, anno dell’esordio letterario dell’autore che inaugurò, con A tre deserti dall’ombra dell’ultimo sorriso meccanico, la collana Internet Poetry, fondata e diretta da Francesco Saverio Dòdaro per Conte Editore – la prima collana di poesia telematica. Lo stesso testo, un titolo a carte sciolte, strutturate come cartoline nel formato 12×21, è risultato vincitore del Premio Venezia Poesia nel 1996. Nel testo introduttivo Francesco Saverio Dòdaro parla, non a torto, di «dodici punti di rilevamento [...] dodici isoglosse» ché s’intersecano nell’atto della lettura e delimitano uno spartito unico di consonanze amniotiche che, primordiali, battono il tempo come un tamburo pulsa sulla metrica del cuore, e si riempie il respiro delle vastità naturali che s’aprono nello sguardo e l’animo umano. C’è questo tempo indeterminato, perché non catalogabile, senza dimensioni di sorta, né temporali né spaziali, dove le coordinate metriche scorgono dimensioni, di cui dicevo in apertura, che, sì, sembrano dimenticate, ma albergano distratte nell’implicita anatomia sensibile dell’uomo, nello spaccato inconscio che è il viaggio unico, il filo conduttore che dall’origine accompagna genti diverse, è nell’origine del ciò che è stato hegeliano, nel Wesen ist was gewesen ist, che si realizza la condizione ottimale in cui si esplicitano i versi di Coriano. E scrive ancora Dòdaro «Dodici isoglosse. Del dolore universale: il neumanniano Weltschmerz [...] Dodici isoglosse. Del frammento, prima di Platone, poi di Freud, Lacan, Kristeva» perché del dolore Coriano ha fatto mezzo per forgiare il tempo, è nel dolore universale che, sul bilico dell’annullamento psico-poietico, il verso si genera e condensa le sue energie lungo un tracciato che sa leggere la vastità esperienziale dell’origine comune, come una danza di tempi lontani in cui alti tamburi a fessura issati come totem innalzavano la sacralità dell’uomo nel richiamo totale e fertile dispensatore delle nostre tenere lacerazioni, di nascite di umori di lontananze e comunioni «nella misteriosa foresta, tra i lupi con le ali, gli angeli / cornuti / e la musica dei corpi suonati come flauti» [Coriano, E., H 4169] irrompe una poetica tesa, che gestisce la spazialità della pagina memore del Caso e del colpo di dadi dell’ultimo Mallarmé, lacera il testo – dalla sua accezione accademica – nell’assenza della punteggiatura, quasi a segnare un tragitto di nascita, come se ogni singolo haiku fosse un corpo a se stante che, in quanto linguaggio, è generazione continua di una ricerca che nel verso libero della natura s’erge a costruzione poietica della dimensione umana. «Una solitudine viva come una folla impazzita» [Coriano, E., H 4839] – perché è nella folla la solitudine estasiata della ripetizione, nello straniamento collettivo dell’urtarsi dell’uomo-numero – che «Mentre la coscienza con corpo di donna si feriva i polsi offrendosi ai lupi» [Coriano, E., H 4839] la vita poetica di Coriano è manifestazione di un recupero del respiro, del verso che non si sottrae al ritmo e nel ritmo si genera da sé come, ancora, elemento unico, a se stante, che s’innalza in danze divinatorie che albeggiano di uomo in uomo, di linguaggio in linguaggio, corrispondendo le parole all’alba di un continuo “ciò che è stato”.

Francesco Aprile
2012-02-08

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